Cibo sacro di strada e di piazza

Riproduco l’articolo apparso si Vini & Cucina bresciana, ora in edicola.

In Italia, in un anno, si svolgono circa quarantamila sagre. Considerando che in Italia ci sono 8000 comuni, vuol dire che stiamo parlando di una media di almeno 4 sagre per comune. Non è certo un dato statisticamente affidabile ma indica che queste attività non rispondono soltanto al bisogno ‘economico’ di offrire al turista o alla comunità un’occasione di acquisto o di promozione commerciale, ma rispondono al bisogno delle comunità di ritrovare una radice comune, di rispondere al bisogno di identità. Ed il tramite più efficace è quasi sempre il cibo.

I non luoghi

Siamo spaesati. La piazza è stata per secoli il centro identitario delle comunità. Piazza come luogo di incontro e di scambio, sociale ed economico.

Si è cercato di sostituirla con i centri commerciali che, già nel 1992, l’antropologo francese Marc Augé definiva come non luoghi,  incapaci di svolgere un ruolo identitario poiché privi di storia e inadatti a stabilire relazioni. Questa cattedrali del consumo seriale e terminali di marchi planetari, hanno tentato negli anni di diventare piazza e luogo di ritrovo. Hanno cercato di mimare la piazza tradizionale distribuendo le superfici espositive dei negozi lungo percorsi convergenti verso la ‘food court’, la piazza del cibo, riconoscendo al consumo alimentare un decisivo valore attrattivo e socializzante.

I parcheggi dei centri commerciali sono immensi, si riempiono e svuotano secondo i ritmi dello shopping, erogano uno sproposito di cibo seriale che pure piace, che risolve il problema del pranzo veloce, che si traveste con richiami territoriali, ma che lascia un vuoto di identità.

Questo bisogno di comunità, di piazza ci è rimasto dentro: la comunità grande, larga, del paese, è diventata la piccola comunità del tavolino del dehors e dell’aperitivo con gli amici. E’ ancora nella nostra memoria nel periodo pandemico, nelle interviste dei media, appena finito il dramma della colonna sonora delle sirene delle ambulanze, i giovani rivendicavano e segnalavano la mancanza dell’aperitivo con gli amici. Questa civiltà degli stuzzichini, su cui non ha senso esprimere un giudizio, esprime un bisogno di socialità e di comunità che si esprime nei modi che ha a disposizione.

La piazza d’altri tempi

Scrive Carlo G. Valli nel suo volume “Gli antichi sapori dei mangiari di strada”, pubblicato nel 2003 da cierre edizioni: “Un tempo, neanche tanto lontano -diciamo vent’anni fa e anche meno- la vita d’ogni giorno si ritmava in gran parte per le strade, soprattutto per la gente minuta.” (p. 11).

“La piazza insomma è ‘il più bel posto del mondo – a sentire l’esternazione di Arlecchino – dove se pianse, se ride, se canta, se bala e, se se xe poveri, non se paga niente” (p. 13).

In questa piazza d’altri tempi, specie nei centri più piccoli, si aggiravano i venditori di cianfrusaglie e di piccoli servizi domestici. Tra loro i venditori di cibarie che portavano dalle campagne, uova, erbe, pollame: el fretaröl, el formaì el béchér, chèl del pès e del bertagnì.

Ancora negli anni ’80 la piazza era anche luogo di riconoscibilità politica e economica, di rivendicazione, di protesta. La crisi della piazza è andata progressivamente crescendo in proporzione all’affermarsi dei telefonini e del consumo in casa, a cui ha dato una spinta micidiale la pandemia.

Se le fiere e le sagre hanno successo è perché rimane inappagato il bisogno di riconoscersi come comunità e di offrirsi allo sguardo dei forestieri come una entità coesa e riconoscibile. Viene in soccorso molto spesso il cibo, la specialità gastronomica col suo potente significato distintivo.

Sagre e fiere

Sagra deriva dal latino sacer, che significa sacro, ed indica una festa popolare legata alla consacrazione di un tempio, alla ricorrenza dei prodigi del santo patrono a cui quasi sempre si ricollega la fiera, più laica, popolare e liberatoria, fatta di abbuffate e scampagnate, giostre e divertimenti.  La fiera (deriva dal tardo latino fĕria), periodo di festa, richiama in aggiunta la parte economica, lo scambio di beni, il ruolo dei commerci.

Celebrazione del sacro è sberleffo liberatorio tipico della festa popolare: la sagra e la fiera diventano tutt’uno e forniscono un ‘senso comune’ un obiettivo, su cui la comunità si ritrova, rinverdendo le radici di appartenenza.

Con qualche insidia. Perché il giochino è abbastanza scoperto e la tendenza di inventarsi una sagra attorno a qualsiasi piatto per far sapere di esistere, rischia di inflazionare lo strumento e derubricare a occasione di cassetto il momento celebrativo della comunità.

Cibo di festa e di strada

Il cibo di strada è figlio della piazza, del mercato e della sagra, ma oggi ha una sua valenza originale. Come la festa di paese, pur prevedendo un consumo veloce e ‘individuale’, è un consumo ‘pubblico’ che connette colui che ne fa uso ad una comunità di ‘mangiatori’ che ama il cibo gustoso e non cerimoniale: meno cucina gourmet e più sana allegria dettata dal placare la fame. Cibo mangiato con le mani e che fa riconoscere, in chi è in fila davanti al chiosco, il piacere condiviso di un pasto senza fronzoli e dai sapori schietti. Chi mangia al chiosco, non teme ormai di essere considerato come qualcuno che risparmia sul mangiare: si dichiara come persona che si prende una pausa dagli eccessi cervellotici del fine dining, che si gusta il migliore dei pasti perché, magari, gli ricorda i suoi momenti da ragazzo.

Anche una qualche sospettosità igienica è ormai superata per l’attenzione che, almeno da questa parti, gli organi di controllo pongono nel verificare il rispetto delle norme sanitarie.

Sapori d’antan

Sull’onda dei ricordi e dando contenuto al senso di amarcord che inevitabilmente le fiere portano con sé, pesco alcuni ingredienti della Fiera di San Faustino, ultimo mercante di neve, (stiamo parlano degli anni ’60 del secolo scorso) e affiorano voci e sapori che il tempo colora di un alone magico. Quasi all’imbocco della via, poco discosto dalla chiesa patronale, la fiera si offriva suntuosa nelle tirate spettacolari dei venditori di piatti che battevano sul piano zincato pile di terraglie a dimostrarne l’indistruttibilità, con un esercizio di persuasione da far invidia ai migliori retori, ma che mia madre considerava con un qualche sospetto temendo che, nel momento del fare il pacchetto, qualche piatto sbeccato venisse infilato.

Ma per me ragazzino, povero come la maggior parte in quei tempi, la festa erano i dolci. Lasciamo stare il torrone, più un cibalo molliccio alla cremonese che un vero torrone, inavvicinabile per costo e inconfrontabile con il Vergani: la mela stregata, il tirapicio, le castagne intrecciate sono le icone incantate che ancora ho in mente e che, nell’ondeggiare tra sgarro e sberleffo, fanno riaffiorare il senso perenne della fiera.

MELA STREGATA

Il mio amico Valerio Catella, cultore di attrezzi antichi di cucina e di ricette, cuoco con anima di pasticcere, mi dice che le mele stregate vermiglie, messe in bella mostra allineate sulle assi erano fatte così:

Tecnicamente si tratta di una semplice mela, infilzata in uno stecchino tipo “spiedino” di diametro adatto a sostenerne il peso, poi ricoperta di zucchero caramello colorato di rosso. Un decoro di cioccolato plastico o marzapane verde a forma di foglia rifinisce la sommità dove è infilzato nello stecco di legno! Ricordo che questa preparazione la si prepara pressoché al momento o quasi, in quanto lo zucchero caramello soffre dell’umidità presente nell’ambiente e dopo qualche ora inizia a “sudare” e colare. Andranno conservati in scatola chiusura ermetica max 24-48 ore.

Ingredienti

1000 g zucchero, 100 g miele (o glucosio), 100 g acqua, colore rosso.  Per le foglie cioccolato plastico/pasta di zucchero/marzapane colorati di verde.

Procedimento

Preparare un caramello cuocendo a 148° C, colorare di rosso idrosolubile alimentare, indi tuffarvi le mele ben pulite ed asciutte in modo che si ricoprano perfettamente di caramello. Disporle su un foglio di silpat o carta forno ad indurire. Applicargli una volta fredde delle foglioline decorative verdi. Volendo anche un vermetto di gelatina comperato. Si può profumare il caramello anche con cannella o vaniglia

Il TIRAPICIO

Lo stesso discorso vale per il Tirapicio. L’etimologia incerta – interpretata da noi ragazzini, e non solo, nel modo più canzonatorio e scurrile – rendeva popolareggiante la tecnica dello zucchero tirato.

Anche qui gli ingredienti erano zucchero, glucosio, miele e melassa: la temperatura magica dei 150 °C e poi la lavorazione prima sul banco zincato e poi al chiodo dove la massa veniva lavorata con gesti sapienti e mani raffreddate nei secchi d’acqua e oliate (la leggenda dello sputarsi sulle mani è appunto una leggenda) diventava setosa per essere poi adagiata ancora ancor calda e attorcigliata sui banconi e venduta a strisce lunghe una spanna.

Oggi il tirapicio si vende ancora allineato e impacchettato, protetto dall’umidità e dalla povere in perfetti sacchetti allineati sul bancone. Manca il rito del lavoro di mani, lo si mangia cercando il sapore di un tempo ma, come si sa, il sapore che sentiamo è quello che è rimasto lì nella nostra testa e nel nostro cuore. pronto ad essere richiamato nel momento della nuova fiera che si perpetua.

LE CASTAGNE INTRECCIATE

Un accenno alle castagne devo farlo, erano per me l’attrazione più potente. Non alle biline che, come mi ricorda un altro mio amico, Ocildo Stival, il più autorevole esperto di castagne a livello nazionale, non sono -come equivocano spessi i bresciani- una ‘tipologia’ di castagne destinate all’essicazione, ma sono una vera e propria varietà “tra l’altro ben descritta da Fenaroli negli anni 50”.

Ma alle collane di castagne intrecciate che, allineate sui banconi, erano per me la quintessenza della fiera. Infilzate a mo’ di trecce, con gli spaghi da materassaio, nei loro giri di spaghi, avevano qualcosa di regale: le belle trecce sode delle ragazze castane che si vedevano in giro.

Le castagne intrecciate, è ancora Stival che lo certifica, non sono una tradizione bresciana. L’area di provenienza è quella cuneese e novarese. Famose per la fiera di San Gaudenzio patrono di Novara, che il 22 gennaio di ogni anno vedeva convergere i marunat che poi, presumibilmente, si spostavano di fiera in fiera approdando, a metà febbraio a San Faustino: correnti di commerci d’altri tempi, segni di un’economia arcaica eppur vivace.

Il sapore delle castagne intrecciate era fantastico. La  tradizione vuole che vengano fatte essiccare con ciocchi di castagno per ottenere l’aroma affumicato: ci vogliono quindici giorni, si devono girare una volta a settimana perché siano uniformi. Poi si mettono a bagno per ore, prima di iniziare a intrecciarle. E si bagnano ancora prima di metterle in vendita.

Pochi sono rimasti a far questo mestiere (pare che una piccola tradizione di famiglie dedite a questa attività resista a Sant’Angelo Lodigiano). Io le ho assaggiate recentemente. Mi spiace, ma non avevano nulla a che vedere col sapore che ricordavo.

Forse qualche scorciatoia nella preparazione, l’eccesso di bagni di zucchero per coprire la pochezza del sapore delle castagne. Ma che importa: che la festa sia con noi.